Bolzano 24 maggio 2038

Il cielo è grigio, sui prati del Talvera, l’aria un poco pesante per l’alto tasso di umidità, proprio come 30 anni  fa. Sembra che il tempo si sia fermato ed il suo trascorrere abbia lasciato il quadro intatto; il quadro all’interno del quale si è svolta, oggi,  la cerimonia commemorativa del trentennale dell’inaugurazione del nuovo Museion.

Sul ponte ciclabile intitolato a Piero Siena hanno trovato posto le autorità, mentre sul ponte pedonabile,  dedicato a Karl  Nicolussi  Leck , si è riunito il pubblico.

Come allora, quasi fosse una irripetibile congiunzione astrale, si sono ritrovati– ciascuno sul proprio airbike - Durnwalder ,  Diserens,   Lageder,  Spagnolli;  perfettamente conservati, ancora scalpitanti. Al  segnale convenuto, un volo di colombe bianche meccaniche, hanno ripetuto la performance del taglio del nastrone, lanciandosi contro di esso con sprezzo del pericolo, suscitando una certa preoccupazione per la loro incolumità; alcune incertezze nel mantenere traiettoria e direzione, non hanno scalfito la suggestione e  la sacralità della rievocazione.E’ stato il segnale, per i ricordi, di riemergere.Ricordo la folla, in attesa paziente dell’apertura, ascoltare i discorsi rituali dei notabili e subito dopo, ancora all’esterno, lo straordinario successo di pubblico  che ebbe l’installazione di Jenna Lee Catering dal titolo “ ATAVIC  HUNGER “; l’opera fu letteralmente polverizzata, così come aveva previsto e voluto l’artista. Alcuni visitatori ebbero a dichiarare che erano venuti appositamente e che ritenevano il lavoro tra i migliori mai visti .

La prova provata che - dovutamente sollecitati - i visitatori , quelli più attenti e preparati, interagiscono con entusiasmo , a dimostrazione che l’arte contemporanea , se opportunamente imbandita, può essere compresa e compiutamente fruita.

E poi ricordo, il tanto atteso accesso al ventre della montagna incantata, in una atmosfera densa e lattiginosa ( perché l’attenzione non fosse distolta le lamelle orientabili delle facciate vetrate erano state chiuse ) con i visitatori in accorta deambulazione tra la selva di multiformi opere: gli sguardi tra amici, mogli, figli, parenti, indecifrabili anche con i sottotitoli di timidi bisbigli.

Apprezzamento, reverenza , sbigottimento, entusiasmo represso: non era affatto facile leggere il significato di un braccio con l’indice puntato, distinguere i punti esclamativi dagli interrogativi , capire se le bocche aperte  fossero dovute a sorpresa  e curiosità  irrisolta od alle rampe di scale.  Ricordo ancora i commenti del giorno dopo: la contrapposizione tra coloro che approvavano entusiasti architettura e collocazione e coloro che sostenevano che lì non andava fatto perché disturbava l’equilibrio naturale dei prati e del fiume.

Così mi pare di ricordare che l’opinione pubblica poco o niente si espresse, sui lavori  esposti nel nuovo Museion,  quasi che il contenitore avesse fagocitato – per importanza – il contenuto. L’eccezione fu  un ranocchio verde, crocefisso, che innescò un’incandescente polemica popolare nonché l’anatema del vescovo.

Si alzò anche la voce, fuori dal coro, di un bizzarro critico d’arte , all’epoca abbastanza noto, ma di cui ora si è perduta la traccia, che rilasciò un’intervista al quotidiano locale - che allora si chiamava Alto Adige - tranciante quanto stonata, nella quale esponeva una tesi disfattista, ampiamente contraddetta dai fatti, nei tre decenni successivi.

30 anni di crescita esponenziale che hanno azzerato anche i fondamentalisti dello  scetticismo ed hanno catapultato Bolzano, allora piccola e sconosciuta città di provincia, nell’olimpo mondiale dell’arte contemporanea.

Sono felice di essere stato spettatore, 30 anni fa, di un evento che ha rappresentato il naturale coronamento del sogno di un uomo che negli anni 80 del novecento, solitario e senza mezzi,  indicò una direzione, mantenendola senza divergenze, fino ai suoi ultimi giorni: quel Piero prof. Siena che mi sembra di sentire e vedere , affacciato alla balaustra del paradiso dei magnifici, che dando di gomito a Nicolussi Leck, dice nel suo vernacolo mantovano, increspando i baffetti  “ Oh, Nico, et vist in dua sema rivà!”( Oh, Nico, hai visto dove siamo arrivati!?)

Staga ben Profesur!Mi  Amarcord! 

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